Periodico di attualità, politica e cultura meridionalista

sabato 31 dicembre 2011

Quest'anno il discorso di fine anno lo faccio io!

Vi lasciamo al simpatico pensiero di Giancarlo Rinaldi e, aderendo ad una proposta molto in voga su internet, il Giornale del Sud "boicotterà" il discorso di Napolitano. Alle 20.30 tutti i televisori spenti.

CASERTA - Quest'anno sarò io a leggere il messaggio augurale di capodanno. E questa è l'unica buona cosa che posso dirvi. Per il resto devo confessarvi che non sono riuscito a preparare nulla di particolare. Un po', devo confessarvi che, come diceva Tom Hanks in un celebre film "sono un po' stanchino". Mi è anche mancato il tempo dovendo lavorare e dovendo farlo per più della metà delle ore soltanto per pagare tasse, imposte e accise.  E' una questione quasi matematica. Un conteggio, un calcolo che pochi realizzano. Se metà del mio tempo lavorativo serve solo per pagare tasse allo stato, quanto altro dovrò lavorare per pagare elettricità, telefono, carburanti? Capite bene che non me ne rimane molto da dedicare al discorso di fine anno. Fortunatamente negli anni passati (dovrei dire generazioni passate), i miei avi erano riusciti a risparmiare qualcosa a cui oggi attingo per poter continuare a campare. Finchè dura. Anche perchè, come ho scoperto andando in banca per prelevare delle somme (denaro mio, intendiamoci), ho scoperto che il mio denaro non era più mio, nemmeno formalmente. Ho dovuto giustificare il motivo per cui prelevavo i miei soldi, guadagnati col MIO lavoro, ed inoltre ho anche scoperto che posso avere in contanti solo una cifra ridicolmente bassa. La casa, comprata dai miei, richiede anch'essa ingenti somme, dalla manutenzione al condominio, ed anch'esse intaccano in maniera tangibile le mie entrate mensili. E tutto questo non vale soltanto per me. Ciononostante vengo tassato e ritassato anche per questo come se avere una casa mi procurasse chissà quali favolosi introiti: non è così. Ma guardo l'orologio e il tempo a disposizione per il messaggio di fine anno è quasi terminato. Che dire quindi? Mi sovviene, allora, di una frase che i miei antenati hanno sentito/pronunciato tanto tempo fa e che ho risentito in un film del grande Pasquale Squitieri. Un film che stranamente è sparito dalla circolazione, perchè raccontava la dura realtà dei fatti in un modo che al regime non piaceva. La frase era quella pronunciata anche lì da povera gente "liberata". Gente ormai divenuta "ita(g)liana" che di fronte ad una situazione insostenibile esclamava: "o Brigante o Emigrante!!!!"
Buon anno!

Giancarlo Rinaldi

2011, cala il sipario su questo "annus horribilis"





venerdì 30 dicembre 2011

Addio Tremaglia, scompare il ministro degli italiani all'estero. Tre, le considerazioni necessarie al di là dell'uomo politico



ROMA - E’ morto Mirko Tremaglia. Poche parole da dire sull’uomo e sul politico. Per il suo passato è stato messo in croce e “costretto” ad un ruolo di secondo piano, quasi di silenzio nei lunghi anni della militanza nel Movimento Sociale Italiano di Almirante e Pino Rauti. Amato dal popolo della destra nostalgica per via della sua militanza giovanile nella Repubblica Sociale. Uomo di destra, sempre coerente con sé stesso e con i suoi principi, condivisibili o meno che essi fossero. Con la fine della prima repubblica e il crollo delle ideologie e del sistema bipolare anche la politica italiana cambiò. L’evoluzione della destra, lo svecchiamento del Msi, l’arrivo di Berlusconi e degli orfani socialisti e democristiani nel campo destro dello schieramento sconvolsero il vecchio ordine ma Tremaglia non ne risentì in modo particolare. Entrò in Alleanza Nazionale seguendo la linea moderna di Gianfranco Fini pur restando con coerenza sulle sue posizioni. In fin dei conti come chiedere ad un uomo di quasi 70 anni di fare una revisione completa del proprio modo di pensare? Divenne  Ministro, punto più alto della sua carriera politica, che si concretizzò nella nomina ad un nuovo dicastero a lui particolarmente caro, quello degli italiani all’estero. Negli ultimi anni, all’interno del Msi e di An si era dedicato ai cittadini italiani emigrati all’estero e a loro dedicò la legge che porta ancora oggi il suo nome che ha consentito di dare a questi “esuli” il diritto di voto per un limitato numero di rappresentanti. Finita l’esperienza di Governo ha condotto la sua opposizione all’esecutivo Prodi e ha poi seguito Gianfranco Fini nel Fli. Quasi spartito dalla scena politica dal 2010 la sua ultima apparizione pubblica fu a Mirabello. In quell’occasione apparve in tutta la sua decadenza umana dovuta al maledetto Parkinson. Oggi, alle soglie del 2012 ha lasciato questa terra e ha raggiunto l’amato figlio Marzio morto nel 2000 a 42 anni a seguito di una grave malattia. Tre opinioni, al di là del valore umano e politico di Tremaglia. Le prime due riguardano la sua legge che ha peccato di ingenuità. Nel tentativo, giusto, di dare voce a chi non risiede più nella penisola si è dato troppo peso a questi rappresentanti come divenne evidente dopo le elezioni del 2008. Il lavoro di Tremaglia sarebbe forse stato maggiormente completo se abbinato ad una seria riflessione sulle origini dell’emigrazione, specie quella meridionale, interna ed esterna alla penisola cominciata a seguito dell’unificazione politica del Paese. La terza è più politica e riguarda la sua adesione al Fli partito che stona, quasi in tutto, con la sua storia personale. I più critici di Fini hanno parlato di una operazione da basso impero, l’approfittarsi di una mente debole. 


Non arrivo a dire questo ma certo la sua presenza a Mirabello è stata una partecipazione quanto meno stonata. Queste restano chiacchiere di fronte alla morte ma a volte anche le chiacchiere possono servire a ragionare.

r.d.r.

Tasse ed evasione, la grande truffa e una previsione per il 2012



NAPOLI - Caro direttore, riprendo quanto da te sostenuto in passato circa le tasse. Come giustamente dice qualcuno l’introduzione di una flat tax al 15%, assieme ad un sano e serio piano di abbattimento delle spese e degli sprechi, sarebbe stata la cosa più giusta e corretta da fare. Grosso modo è quanto sta avvenendo in Spagna dove, grazie ad un Sovrano con gli attributi (a differenza del Presidente burletta che risiede al Quirinale), non si è piegato l’interesse del paese al volere della Banca Centrale Europea. Il paese, caduto il legittimo governo democraticamente eletto, è andato alle elezioni e il nuovo Primo Ministro Rajoy si è assunto la responsabilità politica di un piano di risanamento economico fatto di tagli alle spese, riduzione delle tasse e incentivi alle sviluppo. Sogno per la malandata Italia che si è dovuta beccare, su ordine della Cancelliera di cartapesta Merkel, il governo tecnico targato Bce. Ma è sulle tasse che vorrei concentrare l’attenzione dei nostri lettori. Come già detto da questa testata in più occasioni il nostro Paese ha un debito pubblico superiore ai 1900 miliardi di euro. Grazie alla manovra Monti tra tasse, imposte e (pochi) tagli si conta di racimolare 25 miliardi. Altri 270 sono i miliardi di evasione che, secondo i tecnici, dovrebbero essere recuperati grazie alla stessa manovra. La previsione è completamente destituita di fondamento. Sono i dati degli ultimi 30 anni ha raccontare questa realtà: maggiore è la pressione fiscale, maggiore è l’evasione. In poche parole. Più le tasse aumentano maggiore è la voglia dei cittadini di evadere. Giustamente aggiungo io. Non è giusto sottostare ad un regime fiscale e tributario così iniquo come quello italiano. Sempre per restare ai dati. Nel 1980 la pressione fiscale era al 39,4%, le previsioni Istat per il 2012 danno un impietoso dato di poco superiore al 48% segnando, qualora il dato fosse confermato, un bel +1,5% rispetto all’anno che si sta chiudendo. L’evasione, invece è arrivata a 270 miliardi ben 70 in più negli ultimi due anni. Praticamente da quando il Governo ha deciso di combattere l’evasione fiscale con nuove tasse e con un regime di polizia fiscale, l’evasione è cresciuta di 35 miliardi l’anno. Senza considerare la dissennata scelta di non distinguere l’elusione (legale) dall’evasione (illegale). In parole povere l’elusione corrisponde a quando, dal commercialista (e confessi chi non lo ha fatto), si chiede di fare tutto il possibile per pagare il meno possibile “eludendo” le leggi più severe per aggirare quante più tasse possibili e pagare, di conseguenza, di meno. Il tutto nel rispetto delle norme di legge. Ma questa è tutta un’altra storia. Il Governo Monti ha fatto tutto quello che era in suo potere per imporre nuove tasse e combattere gli evasori dimenticando il fatto che, sempre più spesso, si evade perché non ci sono i soldi e non si evade per frodare o per spendere nel lusso e nel benessere. Eppure ci hanno fatto credere, e tentano ancora di darcela a bere, che l’evasione può essere combattuta con le tasse e la polizia fiscale. Falsità ai limiti della truffa. Tutto questo ai signori tecnici non interessa. Intanto il Pil sprofonda. I dati sui consumi dell’appena passato Natale parlano chiaro: si spende di meno. Non ci sono soldi. La gente non compra. Senza considerare l’effetto più stupefacente della manovra Monti: la fuga dalle banche. Come legge di contrappasso per eccellenza è partita la fuga di capitale dalle banche, prime sostenitrici di questo esecutivo. La paura di prelievi notturni (alla Giuliano Amato, per intenderci) è tanta. Così i conti restano aperti ma i soldi sono sempre meno. Sta tornando in auge la vecchia mattonella, alla faccia di Monti e di tutti i banchieri. Il nuovo anno sta per cominciare. Per chiudere una sola previsione ovviamente, come spesso facciamo noi del Giornale del Sud, in controtendenza. La manovra Monti non servirà a nulla. La pressione fiscale supererà il livello più alto degli ultimi 30 anni (il 51,6% del 2009) e l’evasione fiscale aumenterà ancora. Se questa previsione sarà rispettata sarà l’ennesima riprova del fatto che chi ci governa o è incapace o esercita il potere in totale malafede e contro gli interessi del popolo.

Fausto Di Lorenzo

mercoledì 28 dicembre 2011

L'EDITORIALE/ Giorgio Bocca, il coro di lode e gli eredi rimasti in circolazione



CASERTA - Giornalisti di destra e giornalisti di sinistra sono accorsi in questi giorni, fisicamente e spiritualmente, al capezzale e poi al sepolcro di Giorgio Bocca che ha lasciato questa terra il giorno di Natale. Non posso iscrivermi al partito di chi rimpiange un figuro come Bocca, formazione che attraversa gli schieramenti da Feltri (che rimpiange un “nemico”) a Scalfari e De Benedetti (che piangono un amico e un maestro di giornalismo e di vita). Sto sulle mie posizioni, non dico di felicità ma certamente di accurata indifferenza. Giorgio Bocca non mi piaceva. Non mi è mai piaciuto. Non è certo un requisito quello di piacermi, è questione di gusti personali. Non mi piaceva come giornalista e ancor meno l’ho apprezzato come uomo. Già il fatto di essere piemontese non giocava a suo vantaggio ma abbinare al peccato di origine il peccato mortale di idea è troppo. Vogliamo rovistare nel torbido? Volo di ricognizione prima di approfondire. Bocca è stato tutto e il contrario di tutto. Fascista e antifascista, partigiano di stampo liberale e spietato giudice dei tribunali del popolo, giornalista lombrosiano e anti meridionale salvo poi diventare autore di libri strappa lacrime sul meridione per vendere qualche centinaio di copie a pecoroni asserviti, fu un esaltatore delle virtù del socialismo da bere di Craxi salvo poi finire davanti l’Hotel Raphael con le monetine in mano, sostenitore del Berlusconi imprenditore televisivo e poi fiero oppositore del mostro di Arcore, a tratti leghista e poi nemico di Bossi e della sua orda di barbari. Accettò il titolo di anti-italiano ma più italiano di lui è soltanto l’altro Giorgio, il monarca Napolitano. Ce n’è per tutti. Ripartiamo dall’inizio. Cuneo. Diciotto agosto 1920, giornata calda nel profondo nord. La signora Bocca da alla luce un maschio. Lo chiamano Giorgio. Due anni dopo Mussolini viene investito del potere quasi assoluto da un monarca piegato ai desiderata di industriali, militari e aristocratici senza spina dorsale e col pensiero fisso al profitto che il fascismo può garantire loro tenendo ben lontani dal potere comunisti e derivati di sinistra. In pochi anni il giovane Giorgio brillò nelle sedi del Fascio littorio conquistandosi, una volta raggiunta la maggiore età un ruolo di rilievo nel Guf finendo davanti al Duce in persona nel 1940 in occasione di una premiazione per le gare di giochi invernali durante i quali si distinse ottenendo la M d’oro. Aveva la scrittura nel sangue e la firma facile. Il suo nome è infatti finito sotto al Manifesto della Razza pubblicato nel 1938 per dimostrare ai tedeschi che l’Italia Fascista non si mischiava a certa gente. Non contento di aver sottoscritto il manifesto Bocca si espresse in chiave razzista ancora contro gli ebrei nel 1942 su “La Provincia Grande” quando diede la colpa alla congiura ebraica delle disgrazie di guerra che si affacciavano all’orizzonte. Miracolo della conversione. Dopo l’8 settembre, finito Mussolini a Campo Imperatore e chiusasi in tragicommedia l’esperienza fascista, l’alpino Bocca molla tutto, M d’oro, tessera di partito, articoli compromettenti e amicizie scomode e va sui monti a ricostruirsi una verginità politica iscrivendosi alle liste dei partigiani di Giustizia e Libertà. Nel giro di due anni è un leader della resistenza contro tedeschi e repubblichini. A guerra finita esercita ancora la sua funzione di presidente del tribunale del Popolo e firma (sempre il solito vizio) la condanna a morte per il tenente Adriano Adami e per altri 4 appartenenti alle forze della Repubblica sociale italiana. Poco importa se a guerra finita i prigionieri dei partigiani avrebbero dovuto essere consegnati alle autorità ricostituite. Anche grazie a quelle morti il nuovo Bocca poté costruire la sua nuova carriera di giornalista. Giornale dopo giornale, Sentinella d’Italia, la Gazzetta del Popolo, l’Europeo, il Giorno, divenne sempre più noto e apprezzato. Più esperienza maturava più si accresceva l’elenco di quelli che volevano considerarsi suoi discepoli ma aumentavano, al contempo, errori e cadute di stile. Sempre di facile firma appose ancora una volta la sua sigla in calce al manifesto contro il commissario Calabresi insieme ad altri ben pensanti e mal razzolanti dell’epoca. Molti chiesero scusa e ritrattarono, Bocca no. Lui era tutto d’un pezzo e poi a lasciarci le penne era stato solo un commissario di polizia. Diversamente si comportò quando, tra le altre uscite infelici, sostenne che le Brigate Rosse erano una invenzione dei servizi segreti. Scontentò molti alti papaveri e scandalizzò molti cittadini e pochi anni dopo dovette pubblicamente scusarsi per quella maldestra osservazione. Nel frattempo agli articoli si sommarono un lungo elenco di libri. Memorie della sua gioventù e della sua esperienza tra i partigiani, con largo uso di bianchetto, racconti a carattere storico, resoconti e inchieste di cronaca, fino agli ultimi anni, quando si impegnò nella crociata contro l’orco di Arcore. Carattere non facile, ai limiti del burbero e dell’insensibile con una buona dose di falsità cortese tipicamente piemontese, Bocca vide crescere grazie soprattutto alle sue esternazioni l’elenco dei suoi nemici. I giornalisti di destra, anche quelli che oggi sono costretti a violentarsi pur di non dire quello che pensano di un collega morto, lo odiavano per via dei suoi cambi di fronte. I leghisti per lo stesso motivo. Berlusconi e i suoi peones egualmente. Ultimamente si era appiattito sulla linea di Repubblica, quotidiano che aveva fondato assieme a Eugenio Scalfari, cosa che lo ha portato ad essere critico nei confronti dello schieramento di centro sinistra. Insomma, un lungo elenco di avversari, nemici, oppositori che si è arricchito di parecchi meridionali che hanno reagito in modo scomposto e, giustamente, aggressivo, quando Bocca, ai limiti della demenza senile, ha cominciato ad attaccare la varia umanità meridionale da Napoli a Palermo parlando di camorristi, cimiciai, gente abietta, criminali incalliti e paradisi perduti affidati a diavoli. Un giornalista serio avrebbe analizzato le cause e i motivi. Se Bocca fosse stato una persona per bene e non uno sporco lombrosiano avrebbe dovuto informarsi di Garibaldi, “Tore e’Criscienzo”, della “Sangiovannara” e di tutti i camorristi che hanno sostenuto l’eroe dei due modi, Liborio Romano e Vittorio Emanuele II. Mafia e camorra al servizio dell’unità d’Italia. Criminali nati e arricchitisi grazie al tricolore, ma questo all’ultraitaliano Bocca poco importa. Nonostante tutto lo si incensa e più passerà il tempo più, già li vedo passare, crescerà l’elenco dei sostenitori post mortem. Fioccheranno i licei Bocca e i premi giornalistici e letterari a suo nome. Una vera e propria ansia, quella tutta ita(g)liana di voler trovare eredi e pari. Indro Montanelli, il Principe vero del giornalismo, è stato impareggiabile ma già tutti gli accostavano eredi veri e presunti, e personaggi in concorrenza come lo stesso Bocca e Scalfari. Grazie agli ultimi anni di militanza anti berlusconiana Montanelli resta impareggiabile e senza eredi. Morendo ha accresciuto la sua leggenda di grande e vero maestro di giornalismo. Il danno peggiore, invece, Bocca l’ha fatto proprio passando a miglior vita. Ha lasciato in circolazione i suoi eredi. Tre quelli che più di tutti hanno scritto e hanno scalpitato per ottenere la qualifica: Aldo Cazzullo, Fabio Fazio e Roberto Saviano. Come direbbero i latini: “Rustica progenies semper villana fuit!”. Cosa aspettarsi da tal maestro?

Roberto Della Rocca

venerdì 23 dicembre 2011

Tanti auguri di buon Natale dal Giornale del Sud!


La Direzione, la Redazione e lo staff de il Giornale del Sud, augurano a tutti i lettori i migliori auguri per un ottimo Natale da trascorrere in serenità e pace con le proprie famiglie. Come "dono" un bel pensiero di Madre Teresa di Calcutta.

"E’ Natale ogni volta
che sorridi a un fratello
e gli tendi la mano.

E’ Natale ogni volta
che rimani in silenzio
per ascoltare l’altro.

E’ Natale ogni volta
che non accetti quei principi
che relegano gli oppressi
ai margini della società.

E’ Natale ogni volta
che speri con quelli che disperano
nella povertà fisica e spirituale.

E’ Natale ogni volta
che riconosci con umiltà
i tuoi limiti e la tua debolezza.

E’ Natale ogni volta
che permetti al Signore
di rinascere per donarlo agli altri".


Madre Teresa di Calcutta

Vittorio Pisani a processo, l'eroe dell'anti-camorra per i giudici è una gola profonda


NAPOLI - L’onore del trionfo non gli ha risparmiato l’onere del giudizio. L’ex dirigente della Squadra mobile di Napoli, Vittorio Pisani, dovrà essere processato insieme ad altre diciassette persone. Lo ha deciso il gup di Napoli, Francesca Ferri, che ha accolto integralmente le richieste formulate dall’accusa. La prima udienza per l’uomo che ha catturato l’ex latitante Michele Zagaria è fissata per il ventiquattro gennaio. Pisani si dovrà difendere dall’accusa di rivelazione di segreto, favoreggiamento, abuso d’ufficio e falso. Con lui alla sbarra anche i fratelli Marco, Massimiliano e Carmine Iorio, nonché l’ex contrabbandiere e usuraio Mario Potenza con i figli Bruno Salvatore e Assunta. L’odissea giudiziaria dell’ex capo della Mobile è iniziata il trenta giugno, quando gli è stato notificato il divieto di dimora a Napoli disposto dalla Dia. Secondo gli inquirenti avrebbe avuto rapporti stretti con Marco Iorio al punto da “rivelare il contenuto di alcune annotazioni redatte dall’ufficio che stava conducendo le indagini”. Inoltre, avrebbe “arrecato un serio pregiudizio alle indagini, - come si legge da una nota della Procura - specialmente sotto il profilo della compiuta individuazione dei beni da sequestrare a Iorio”. Un curriculum vitae di tutto rispetto quello di Pisani, ma che non è servito a fermare la longa manus della legge. Per lui nessuno sconto, nonostante abbia coordinato in modo “eccellente” - come ha avuto modo di ribadire il capo della Polizia Antonio Manganelli - le operazioni che hanno portato all’arresto - dopo quindici anni - dell’ex capo dei Casalesi. Il sette dicembre la foto di Pisani appariva su tutti i giornali nazionali. Il suo volto era in evidenza dietro a quello del super boss. Scatti che hanno reso meno gloriosa la festa, visto che era in corso una “guerra fredda” tra la Procura di Napoli e la direzione centrale della Polizia. Ore frenetiche quelli antecedenti la cattura del latitante. Momenti resi ancora più incandescenti dalla presenza, tra gli oltre centocinquanta agenti, dell’ex capo della Mobile. Fino alla fine, infatti, c’è stato un via vai di telefonate per capire in quale Questura doveva essere consegnato Zagaria. Napoli o Caserta? Nel primo caso Pisani avrebbe dovuto allontanarsi. Il divieto di dimora nella città partenopea non gli consentiva di seguire tutte le operazioni. Un rinvio a giudizio quello firmato dal gup che getta pesanti ombre sull’operato di Pisani e “fa crollare” anni e anni di lotta che lui e la sua squadra hanno condotto contro la criminalità organizzata. L’ex capo della polizia non è di origini napoletane, ma calabrese. Un meridionale che ha lavorato sul campo sin dai primi esordi in polizia. E’ da ventitre anni che vive ed opera nella città partenopea. Ha consegnato alla giustizia grossi criminali, latitanti e boss dal calibro di Michele Zagaria. La passione per i libri lo ha consacrato scrittore. E’ suo lo scritto “Sul potere degli informatori” che oggi va riletto con occhi nuovi, soprattutto dopo i rapporti che avrebbe - secondo la Dia - trattenuto con Salvatore Lo Russo, suo confidente. Una verità, quella giudiziaria, ancora tutta da dimostrare.

Assunta Ferretta

giovedì 22 dicembre 2011

Pompei, crolla la casa di Loreio Tiburtino (sotto il peso della burocrazia!)


POMPEI – Un altro pezzo di storia che se ne va. Un’altra ferita per quanti amano l’archeologia, per i turisti e per gli appassionati di arte antica. Oggi si è verificato un ennesimo crollo a Pompei. Questa volta a cedere all’incuria e al tempo è uno dei pilastri del pergolato della Casa di Loreio Tiburtino. Ad accorgersi del cedimento è stato un operatore che immediatamente ha allertato i funzionari della soprintendenza per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei. Immediato è scattato il sopralluogo. La Casa in questione è collocata nella Regio II (Insula II). L’abitazione, come prova l’anello-sigillo rinvenuto presso l’ingresso, apparteneva a Octavius Quartio. Sul posto sono intervenuti i carabinieri per accertare quali possano essere state le cause del cedimento del pilastro. Di fatto, da domani, i turisti non potranno visitare l’area che è stata transennata e messa in sicurezza. Ricordiamo che il governo Berlusconi aveva approvato un progetto di 39 milioni di euro per rimettere in sesto la Villa dei Misteri, la Fullonica, la casa dell’Efebo e appunto il Loreio Tiburtino. Evidentemente il crollo di ieri mattina non ha atteso la burocrazia. I fondi ci sono, ma come al solito i tempi di realizzazione delle opere sono di una lentezza esasperante. E così si rischia che il sito archeologico più importante al mondo finisca schiacciato sotto il peso del sistema “burocratico” italiano. Troppe carte, pochi interventi strutturali. Pompei e le sue bellezze rappresentano l’Italia nel Mondo. Ma questo sembra interessare poco a politici ed economisti. La notizia di oggi ha riportato alla memoria quanto è accaduto circa un anno fa. Il sei novembre dell’anno scorso, infatti, è crollata la Schola Armaturarum Juventis Pompeiani (meglio nota come Domus Gladiatori). Dopo una serie di accertamenti le cause sono state attribuite alle infiltrazioni di acqua piovana. Le piogge dei giorni antecedenti il crollo avrebbero inibito il terreno e indebolito le fondamenta. Inoltre, la struttura non ha retto per la pesantezza di un tetto in cemento rifatto intorno al 1950 (cioè dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale). La Domus Gladiatori – come hanno dichiarato alcuni operatori - non era stata ritenuta una situazione a rischio e, quindi, per essa non erano stati predisposti i interventi di manutenzione straordinaria. Nemmeno era rientrata negli ultimi piani di restauri per i quali sono stati stanziati 79 milioni di euro. Di cui, come si ricorderà, il 90% per la tutela e la messa in sicurezza della città antica. Adesso però la vicenda è completamente diversa. I soldi ci sono, o meglio sono stati stanziati ma sembrano essersi “persi” nelle lungaggini delle gare d’appalto. Una “questione all’Italiana” sulla quale si preferisce non accendere i riflettori. Eppure gli scavi di Pompei rappresentano uno zoccolo duro per l’economia campana. Un settore che non conosce crisi visti i tanti turisti che da ogni parte del mondo si recano ad ammirare l’antica città romana distrutta tragicamente a seguito dell’eruzione del Vesuvio, avvenuta nell’anno 79 d. C. Il valore di questo patrimonio viene confermato dall’ennesimo record di visitatori durante il ponte di Ognissanti. Infatti, dal 30 ottobre al 1 novembre sono state contate 20.307 presenze, il 66% in più rispetto all’anno precedente.

A. F.

Paolini e Follegot (Lega Nord) salvano Cosentino (Pdl). Il voto per l'arresto slitta al 10 gennaio



ROMA – Un Natale e un Capodanno da uomo libero per Nicola Cosentino. La Giunta per le Autorizzazioni della Camera ha rinviato il voto sul deputato Pdl al 10 gennaio alle ore 14. La maggioranza si è ricompattata. E non sono mancati i commenti da parte dell’opposizione. Secondo la democratica Marilena Samperi: “Il voto è stato rinviato per dare alla Lega il tempo di ripensarci visto che era corsa voce che fosse favorevole alla custodia cautelare in carcere”. Parole. Voci. Sospetti che confermano quanto delicata sia la posizione del coordinatore campano del Popolo della Libertà. La mossa che ha fatto saltare l’accordo è la memoria difensiva presentata dallo stesso indagato. Oltre 1160 pagine che hanno accompagnato la domanda di autorizzazione all’arresto. Un fascicolo che stato accompagnato alla richiesta di rinvio del voto da Vincenzo D’Anna, deputato di Popolo e Territorio. Rinvio che è passato con 11 voti favorevoli e dieci contrari. Per poco Cosentino non ha rischiato di finire in manette. A salvare il deputato sono stati i voti dei due leghisti Luca Paolini e Fulvio Follegot, i quali non ancora hanno sciolto la riserva. I primi a puntare l’indice contro il Pdl sono stati i dipietristi. Duro il commento di Antonio Di Pietro: “Vogliono salvare Cosentino e proteggere Gomorra”. Poi l’ex magistrato si è lasciato andare ad un’analisi del voto: “Forse, - ha detto – la Lega ha ritrovato la sintonia di sempre con il Pdl. O ancora vogliono continuare a navigare nell’ambiguità”. Non è tardata ad arrivare la replica di Paolini: “La nostra è stata solo una decisione dettata dal buon senso. Non è possibile – ha spiegato l’onorevole della Lega – che Cosentino dal 2001 ad oggi è stato ascoltato dai pm soltanto ieri”. Se per Cosentino è slittato tutto all’anno prossimo, diversa è stata la decisione per Saverio Romano. Infatti, l'Aula della Camera ha concesso l'autorizzazione all'uso delle intercettazioni nei confronti dell'ex ministro dell'Agricoltura Saverio. La votazione è avvenuta a scrutinio segreto. I voti a favore sono stati 286, 260 i no. Quattro gli astenuti. "Così come avevo chiesto in giunta, l'autorizzazione delle intercettazioni mi potrà solo aiutare a dimostrare la mia estraneità ai fatti che mi si contestano". Sono state queste le dichiarazioni rilasciate da Saverio Romano, coordinatore nazionale Pid (Popolari Italia Domani). L'autorizzazione della Camera riguarda l'utilizzo di intercettazioni disposte dalla Procura di Palermo a carico dell'ex ministro dell'Agricoltura Saverio Romano nell'ambito del fascicolo d'indagine in cui il politico è indagato, insieme al senatore Psi, ex Pdl, Carlo Vizzini e all'ex governatore siciliano Toto' Cuffaro, di corruzione aggravata dall'avere agevolato la mafia. Si tratta di 25 telefonate che dimostrerebbero che il ministro Saverio Romano –scrisse il gip nella richiesta all'uso - sarebbe stato a disposizione di un sistema affaristico-politico-mafioso avente al centro le attività del Gruppo Gas di Massimo Ciancimino. Su Romano pende inoltre la richiesta di rinvio a giudizio per concorso in associazione mafiosa. Proprio ieri il gip di Palermo Fernando Sestito ha respinto, dichiarandola manifestamente infondata, l'eccezione di legittimità costituzionale della norma che regola l'imputazione coatta presentata dai legali di Romano. I difensori, gli avvocati Raffaele Bonsignore e Franco Inzerillo, avevano eccepito l'incostituzionalità della disposizione di legge che non prevede, l'avviso di conclusione delle indagini, nei casi di imputazione coatta: fattispecie che ricorre nella vicenda Romano per cui la procura aveva chiesto l'archiviazione, mentre il Gip ha obbligato il Pm a formulare l'imputazione.

Assunta Ferretta

martedì 20 dicembre 2011

Sicurezza a Sant'Agata dei Goti, l'intervento di Grande Sud



SANT'AGATA DE' GOTI - Il Presidente del Club del Grande Sud di Frazione Bagnoli, Pietro Di Nuzzi, il coordinatore Evangelista Campagnuolo, unitamente ad alcuni cittadini hanno inviato a mezzo raccomandata, al Sindaco di Sant’Agata de’ Goti, al Comandate della Locale Stazione di Polizia Municipale, al Comandante della Locale Stazione dei Carabinieri, nonché al Prefetto di Benevento, una missiva per richiedere in via urgente una pattuglia di Sorveglianza nella frazione Bagnoli. Tutto questo alla luce dei gravi episodi di furto che stanno interessando diverse famiglie e che hanno determinato uno stato generale di ansia e paura.

c.s.

Quando la crisi porta alla morte, tutti pazzi per lo Stato

Flavia Schiavon, figlia dell'imprenditore Giovanni.

NAPOLI – Morte. La crisi è anche questo. La crisi che tutti spaventa e che squaglia i poteri forti ed altera le menti deboli. La crisi che ci hanno voluto far subire a causa dei loro maledetti derivati, dei loro stupidi leasing, i mutui subprime, le politiche senza senso, le tasse, i balzelli e le costrizioni. Tutto questo distrugge. L’ultimo caso parla chiaro. Padova. Nord Est, avanzato e proiettato nella regione danubiano balcanica e mitteleuropea. La terra delle partite iva, dei piccoli e medi imprenditori. A Padova viveva e lavorava Giovanni Schiavon, imprenditore di 59 anni titolare della Eurostrade 90. La sua storia è la storia di tanti. Una storia in cui ognuno può ritrovare un pezzo di sé. Una storia che ha una immagine finale, quella della figlia Flavia tra le lacrime dopo aver appreso della morte del padre. Una immagine che colpisce. La colpa di questa morte è la crisi. Un fornitore non ti paga: “C’è la crisi, pazienza un altro mese”. Un altro nicchia: “Sai che sono tempi neri, non ti posso saldare tutto subito”. Il terzo avanza: “Questo è quanto, non ci sono soldi”. Ma intanto le spese e le tasse restano. La merce va prodotta e consegnata. I dipendenti vanno pagati. E si entra nel tunnel. Crediti non riscossi e spese autentiche. I risparmi si consumano e i crediti si sommano fino a quando i debiti non sono sempre di più. Alla fine la spirale trova la sua chiusura drammatica. Senza via d’uscita, come un topo su una nave che affonda nel cuore del mare. E’ Giovanni Schiavon l’ultimo di una serie, fortunatamente ancora breve, di eroi moderni, vittime della modernità della finanza e dell’economia che con le sue leggi contro natura calpesta diritti e uomini. Come il 31enne Candido Filomena di Latiano (BR), che si è ucciso con una calibro 7.56 dopo aver scritto ultime parole per la famiglia e per il socio con cui condivideva la proprietà e la gestione di una sala da gioco sempre più vuota. La crisi ammazza a tutte le età e in ogni luogo, nord e sud indistintamente. La storia di Schiavon è simile a quella di Giancarlo Perin, 52 anni, una moglie e due figli, a capo di una delle imprese edili storiche di Padova che si è tolto la vita il 26 novembre. Poche ore prima di morire aveva confidati a parenti e amici di essere preoccupato per non essere più in grado di dare un futuro ai suoi dipendenti. Il 12 novembre, profondo Sud, un metalmeccanico di Salemi ha scelto uno dei modi più brutti di morire. Nella sua officina ha preso una corda e se l’è stretta al collo. Debiti e lavoro fermo alla base del gesto. La moglie ha trovato il corpo del 45enne consorte. Depressione per crisi, questo lo spettro che si aggira per l’Italia. Il 23 novembre una ragazza rom di 21 anni che cercava di integrarsi nel tessuto sociale di Rho (MI) e che aveva dato prova di voler rinunciare alla sua vita da nomade collaborando attivamente con la Caritas, si è impiccata in un casolare abbandonato alle porte di Monza. Anche qui, crisi e depressione. Ancora in Veneto, a Zelarino (VE) il 21 settembre, un imprenditore di 47 anni si è impiccato nella sua carrozzeria. Appariva stanco mentalmente, non sapeva come rialzare la testa di fronte al passivo che aumentava sempre di più e ha scelto di non vivere più. A Collegno (TO) un anziano di 85 anni di fronte ad un black out che crede dovuto al ritardo di pagamento della bolletta della luce si barrica in casa e dal balcone apre il fuoco verso la strada minacciando i passanti. Dopo tre ore di trattative con la Polizia uccide la moglie e si suicida. Il black out era dovuto ad un guasto nel quadro elettrico del palazzo ma la disperazione era tutta sua. Il 30 giugno è il 30enne di Ragusa Paolo Cannì commesso licenziato poche settimane prima in difficoltà nella ricerca di una nuova occupazione. Una corda e addio a moglie e figlio di tre anni. Il viaggio a ritroso arriva al 17 marzo quando a Roma si sono celebrati i 150 anni dell’Unità d’Italia. Visita di Napolitano all’Altare della Patria e poche ore dopo un senzatetto si lancia dalla terrazza del monumento. Non resisteva più ad una vita senza meta. La ricerca delle vittime della crisi continua. Ancora alle porte di Milano, a Rho, Nada, giovane ex prostituta uscita dal giro infernale della schiavitù grazie all’aiuto degli assistenti sociali non riesce a vivere di sola buona volontà e lavoro non se ne trova. Torna in strada ma è solo la premessa per la fine. Si suicida anche lei commuovendo tutta la città. Ancora di più i tentativi di suicidio. La televisione glissa. I giornali di regime tacciono. Tutti invitano all’ottimismo. Morto per crisi. Non va bene. Era depresso servono le cure psichiatriche. Così la disperazione diventa follia. Tutto può succedere in Italia.

Paolo Blini

lunedì 19 dicembre 2011

L'EDITORIALE/ Lo zio di Bonanni, le tasse e la complicità dei sindacati



ROMA - Mi sento come lo Zio di Raffaele Bonanni, Segretario Generale della Cisl: non so niente di economia ma ho la certezza di poter fare una finanziaria migliore di quella approvata da una inebetita Camera dei Deputati e presentata dal Consiglio di Facoltà guidato da Mario Monti

I numeri e il voto in aula
Va detto che, forse in un sussulto di dignità personale o forse perché si sono resi conto di non servire più a niente, a decine i deputati appartenenti a partiti schierati con Monti che non si sono presentati in aula al momento del voto. I numeri parlano chiaro. A fronte di una fiducia ottenuta, poco meno di un mese fa con 556 sì e soli 61 no (il gruppo leghista più Mussolini e Scilipoti), la Finanziaria è stata sanzionata alla Camera con "soli" 402 voti favorevoli, 75 contrari e 22 astenuti. In meno di un mese il Professor Monti ha raffreddato i bollenti spiriti dei suoi sostenitori che la stangata finanziaria proprio non l'hanno voluta avallare. Sono stati 154 i voti persi da Monti a destra come a sinistra. Hanno tolto il proprio sostegno al tecnicissimo gabinetto (è proprio il caso di chiamarlo così!) sia l'Italia dei Valori che la Sudtiroler Volkspartei (Svp). Politicamente importante la prima, irrilevante la seconda e altamente prevedibile. Con una maggioranza così ampia Monti non aveva alcun interesse ad inserire qualche norma economicamente vantaggiosa per i sud tirolesi  (i quali, per la cronaca, vengono letteralmente pagati dalla Repubblica per restare entro i confini italici, ma su questo si può discuterne in altra sede!) che così, mancando le "pezze d'appoggio", si sono ritirati in buon ordine in attesa di qualche esecutivo politico a caccia di un gruppetto di voti in parlamento. 



La deputata leghista Emanuela Munerato è intervenuta contro la manovra Monti parlando alla Camera vestita da operaia per sottolineare come i costi della crisi, per scelta del Governo, graveranno soprattutto sulle spalle dei lavoratori e delle altre categorie esposte.


Si è astenuto, non era presente in aula o addirittura si è schierato contro il defunto Governo Berlusconi. Quasi tutti gli ex ministri non hanno approvato la manovra assieme ad un'altra trentina di deputati del Popolo della Libertà che, nonostante il tentativo di mettere una pezza da parte di Berlusconi (il quale ha parlato di dissensi previsti e, in certi casi autorizzati dalla dirigenza del partito), è sempre più spaccato. Compatto il terzo polo di Casini, Fini e Rutelli, e meno evidenti le fratture dentro il Partito Democratico. In generale la classe politica sta continuando a dare una pessima prova di sé.

Pagare tutti per pagare meno? No, pagare meno per pagare tutti
Quello che sembra un gioco di parole dovrebbe entrare nella testa di tutta la popolazione. Non è vero quello che ci raccontano. Non è vero che la lotta all'evasione fiscale si porta avanti instaurando un regime fiscale (anticipazione di altri tipi di regime). Non è vero che le tasse sono alte perchè non tutti pagano le tasse. Le tasse sono alte perchè servono a coprire le spese di una classe di tecnici e politici papponi e gli interessi delle banche usuraie. Da Napolitano a Scilipoti, passando per le case degli avvocati, dei giornalisti, dei notai, dei magistrati e via dcendo, c'è tutta una massa di parassiti sociali che vive del lavoro della povera gente che, come ringraziamento, deve anche subire le angherie fiscali decise dal Governo. Se tutti pagassimo le tasse, le tasse non diminuirebbero perchè i signori della casta avrebbero l'interesse a continuare ad ingurgitare e ad abboffarsi. Vero è il contrario. Se le tasse scendessero in modo radicale l'evasione diventerebbe antieconomica. Lo spiega molto bene l'economista Arthur Laffer, economista californiano che, grazie alla sua curva dimostrò come ad un livello di tassazione elevato corrispondesse una alta evasione e, di riflesso, minori entrate. Ad un livello di tassazione considerato "giusto" le entrate fiscali sarebbero aumentate. Guardando il grafico, nel caso italiano si tratterebbe di passare dal livello di tassazione t3 a t*. Le entrate aumenterebbero in modo considerevole.


File:Krzywa Laffera.svg

Casi pratici ce ne sono già stati nel corso degli ultimi 30 anni. Spinto da Laffer, Ronald Reagan applicò il suo sistema e, operando con l'introduzione di una singola flat tax, il gettito fiscale aumentò sensibilmente. Non solo negli Usa si è fatta la scelta giusta di ridurre le tasse. Anche un Paese con un profondo debito pubblico come l'Argentina di inizio XXI secolo ha rivisto il proprio sistema di tassazione e, con una dichiarazione di bancarotta e una revisione al ribasso delle imposte, oggi cresce (al di fuori della dittatura mondiale dell'economia) a ritmi del 6% annui. Non bastano gli esempi? Passiamo alla Russia dove la fine dell'Urss aveva creato una folle politica economica che avrebbe dovuto consentire l'inserimento della nuova repubblica nel capitalismo mondiale. Le riforme non furono sufficienti e nel 1998 la crisi raggiunse livelli gravissimi a seguito anche della svalutazione del rublo. Alla fine Eltsin cambiò le sorti della storia optando per la semplificazione dell'apparato burocratico e militare, con una riduzione del potere delle caste oligarchiche e amministrative e, infine, con una semplificazione radicale del sistema fiscale con l'introduzione di una flat tax che portò, nel giro di un biennio ad un aumento delle entrate fiscali del 30%. Un Governo di tecnici queste cose, non le capisce, o meglio, non le vuole capire perchè trattasi della peggior specie di tecnici, i banchieri che hanno solo l'interesse di bottega.




Dal "Vivat Monti" alle lotte sociali
E torniamo a Bomba ripartendo da Raffaele Bonanni e dagli altri Segretari dei Sindacati, Luigi Angeletti della Uil, e Susanna Camusso della Cgil. Non sapevamo di avere a che fare con delle vergini vestali e, sinceramente, non so come possano pensare di darla a bere a qualcuno. Adesso la triade sindacale si è resa conto che il Governo Monti è un governo tecnico, non legittimato dalla volontà popolare, imposto dal Presidente della Repubblica alle forze politiche allo sbando incapaci di gestire la crisi e di far uscire il Paese dalla palude in cui è precipitato a causa di 150 anni di politiche sballate e fuori dal mondo. Eppure furono proprio i tre sindacati a celebrare il Vivat in aeternum e basta andare a dare una occhiata ai tanti comunicati rilasciati dalle tre sigle sui loro siti. La Cgil esultava per l'eliminazione dell'Orco di Arcore e cantava le lodi di Giorgio I salvatore della Patria: "La fine del governo Berlusconi, delle sue politiche di divisione sociale, di attacco al lavoro, di penalizzazione del lavoro pubblico delle autonomie locali è uno straordinario e positivo risultato per il Paese ed è frutto non solo del giudizio di non credibilità sancito dai mercati in questo periodo ma soprattutto della lunga stagione di lotte del lavoro e sociali che hanno attraversato il Paese in questi anni di cui la CGIL è stata a pieno titolo soggetto fondamentale [...] A questo fine la CGIL pensa che sia necessario un governo di emergenza, di transizione e di garanzia del Presidente della Repubblica che possa affrontare il problema del ripristino della nostra credibilità internazionale" si leggeva nella nota stampa del 10 novembre. Più cauta, ma sempre soddisfatta, la Uil: "Al Presidente del Consiglio Mario Monti e al nuovo Governo va il nostro augurio di buon lavoro. L’impegno a cui è chiamato l’Esecutivo è davvero complesso. Ma la competenza e la professionalità di tutti i suoi componenti ci lascia ben sperare. Noi ci attendiamo provvedimenti per lo sviluppo nel segno dell’equità. In questo quadro, la Uil sarà un interlocutore responsabile ed affidabile". Ma anche sul programma i sindacati erano d'accordo con Monti con la Cgil che esaltava il radicale cambiamento culturale del Paese: "La Segreteria Nazionale della CGIL ha apprezzato nel discorso del Presidente Monti al Senato il forte senso delle Istituzioni, la valorizzazione dello Stato e delle sue articolazioni a tutti i livelli. Gli obiettivi delineati danno il senso di una inversione di tendenza rispetto all'impostazione del Governo precedente sul fronte del contrasto all'economia illegale e al ripristino di politiche volte alla trasparenza e alla lotta all'evasione come elemento fondamentale del progresso civile e sociale del Paese [...] L’interessante approccio tenuto dal professor Monti sull’istruzione registra una vera svolta culturale che riconosce importanza strategica al sistema della conoscenza e dopo anni di vilipendio ne propone la valorizzazione e la funzione essenziale per la crescita e l’innovazione". Poi la luna di miele è finita. Monti ha cominciato a fare quello per cui è stato chiamato dalla finanza internazionale e dall'Unione Europea, ovvero salvare le banche, spremere i cittadini e consentire il pagamento dei debiti nazionali strainfischiandosene della crescita, della popolazione e del risanamento vero che serve al Paese. Ovviamente passato all'ultimo punto dell'agenda del Paese il Sud, su cui il governo non si è minimamente espresso. Ovviamente i Sindacati hanno fatto altrettanto riaprendo però una stagione di lotta contro il potere dei tecnici. Ma dove sono finiti i sindacati compiacenti, quelli che, con Angeletti affermavano: "Quello presentato, oggi, da Mario Monti è un programma sostanzialmente condivisibile. Ci convincono, in particolare, i passaggi in merito alla riforma fiscale, per noi prioritaria nella prospettiva della crescita del Paese. Se si inciderà anche sui costi della politica e sugli inaccettabili privilegi, ci incammineremo su una buona strada". Erano lì. Sono lì. Sono sempre loro. I Sindacati come comitati d'affari, casta silenziosa che non paga l'Ici, che ha esenzioni fiscali di ogni tipo e che pontifica, pontifica, pontifica, su questo e quell'argomento. Sono sempre stati al loro posto. Agli attenti quando richiamati da Napolitano alla responsabilità nazionale, e saranno ancora lì quando dal Quirinale arriverà un secondo richiamo alla responsabilità. Allora se Monti si è insediato anche col consenso dei Sindacati, caro Bonanni, dimettetevi e fatevi sostituire da tuo zio. Ne capirà meno, ma forse saprà fare di meglio. Forse la truffa Monti lui l'aveva già capita!


Roberto Della Rocca

sabato 17 dicembre 2011

L'EDITORIALE/ Presidente, la prego, stia zitto!

Giorgio Napolitano (foto gds)

CASERTA - La domanda sorge spontanea. Perchè il nostro (poco) amato Presidente, pardon, Sovrano, Giorgio I Napolitano, parla parla parla e dice sempre cose meno interessanti e sempre più assurde? Risposta: non si sa! Sarà l'eta che avanza. Sarà il peso della corona che impedisce l'afflusso di sangue al cervello. Sarà la crisi mondiale che ha rintronato un pò tutti. Sarà quel che sarà ma Napolitano ne ha fatta un'altra, o meglio ne ha detto un'altra e questa, se la poteva proprio risparmiare. E' incominciata la maratona televisiva Telethon per la raccolta fondi a favore della ricerca sulle malattie genetiche. Non poteva mancare un messaggio del Re. Ci si aspettava un invito a donare nonostante la crisi economica che sta mettendo in ginocchio il mondo e nonostante la finanziaria Monti che sta uccidendo l'Ita(g)lia. Ma, come al solito, si può dare di più (e non solo nelle donazioni Telethon) e Napolitano ha parlato tramite video messaggio cominciando con queste parole: "L'Italia deve far fronte a grossi rischi per la propria finanza, per la propria economia e quindi chiede sacrifici agli italiani di tutti i ceti sociali, anche agli italiani dei ceti meno abbienti, perchè, si facciano le scelte indispensabili al fine di preservare lo sviluppo della nostra economia". Poi qualcuno gli ha ricordato che si raccoglievano fondi non pro Monti ma pro Telethon e allora il discorso è tornato sul tema della lotta alle malattie genetiche. Resta il sasso, neanche piccolo per la verità, lanciato da Re Giorgio. Un chiaro messaggio, un avviso con la faccia maldisposta verso tutti i poveri cristi chiamati a popolare questo stramaledetto paese. "Paghino i poveri e siano anche contenti" (Giorgio I, 24, 5) questo il nuovo verbo. E difatti la manovra Monti è stata proprio questo. Un carico di tasse allucinanti senza alcun incentivo per il Sud e senza alcun incentivo per la crescita. Tasse, tasse, tasse e altre tasse. (Ben 30 miliardi di tasse che non serviranno a nulla ma sull'argomento tornerò domani!) Tutte tasse per meno abbienti, grandi sconti ai Grandi Affari Monti - Napolitano. Stimare quanti siano questi agnelli sacrificali non è facile come spiegava un pò di mesi fa il sociologo Luca Ricolfi su Panorama. Secondo l'Istat i dati sulla povertà assoluta segnalano il 5% della popolazione che vive al di sotto del paniere di sopravvivenza. Se guardiamo i dati sulla povertà relativa saliamo al 14%. Se intendessimo per meno abbienti quelli che spendono più di quello che guadagnano, ovvero volessimo calcolare la fascia di popolazione che rischia di diventare povera a causa dei debiti contratti tra finanziarie, banche, mutui e leasing saliamo al 20%. Infine volendo sondare gli umori, si consideri il fatto che il 70% della popolazione ritiene di guadagnare di meno di quello che serve a vivere dignitosamente. Dunque il 70% si considera povero, presumibilmente l'8% della popolazione lo è davvero. Una cifra elevata che raddoppia se si scorporano i dati relativi alle diverse zone del Paese con il Sud che è (ma che novità!) maglia nera. Adesso facciamo il punto della situazione. Me lo avesse detto il panettiere che è necessario fare sacrifici gli avrei risposto: "Caro amico, sei rintronato dalla propaganda di regime. Serve dichiarare bancarotta, non pagare il debito pubblico, azzerare le caste e ripartire da zero con una sola flat tax". Ma il panettiere lo posso capire. Non posso comprendere Napolitano che chiede ai meno abbienti di fare sacrifici. Mi rifiuto. Il Re della Casta ci viene a parlare di sacrifici? A titolo di cosa? Lui che sacrifici fa per l'Ita(g)lia? Dal Quirinale si direbbe: "Ma come, non sai che il Quirinale sta facendo economie?". Alla faccia delle economie del Quirinale! Facciamo due conti. Si sta per concludere il 2011 ed è tempo di bilanci che i ragionieri del Quirinale stanno preparando quindi i conti possiamo farli solo sul bilancio preventivo dell'anno 2011, secondo quanto segnalato sul sito www.quirinale.it nell'apposita sezione. Nel 2011 il Quirinale ha avuto a disposizione una dotazione di 228 milioni di euro. La gran parte di questi soldi sono utilizzati per pagare il personale della struttura. Sono 843 impiegati (74 carriera direttiva, 97 carriera di concetto, 204 carriera esecutiva e 468 carriera ausiliaria). A questi vanno aggiunti i 103 uomini e donne del Presidente, vale a dire persone messe a contratto al momento dell'ingresso di Napolitano al Quirinale, persone di sua fiducia che concluderanno di percepire lo stipendio al momento dell'uscita di scena di Napolitano (Deo gratias!). Ad allungare ancora l'elenco il personale militare e le forze di polizia che sono, per motivi di sicurezza collocati a guardia di Sua Maestà. Parliamo di altri 861 lavoratori (solo 258 sono i corazzieri). Lo stipendio più alto lo percepisce, ovviamente, Napolitano. Ben 239.181 euro l'anno (neanche tanto se vogliamo) che al netto delle tasse da versare fanno un netto di 136.397,81 euro l'anno. Ovviamente è stato ritoccato al rialzo dal 2008 al 2010 secondo quanto fissato dalle norme di legge, come tutti i dipendenti della Pubblica Amministrazione, dunque come gli stipendi dei politici (sempre alla faccia dei famosi meno abbienti che si devono sacrificare!), del 9,51%. Allo stipendio da Presidente della Repubblica/Sovrano de facto (gli altri stipendi sono sospesi), si aggiunge la dotazione per le spese di viaggio e rappresentanza pari a 1 milione e 800mila euro. Fin qui gli stipendi. Poi ci sono le tenute presidenziali di Castelporziano e Villa Rosebery che vanno custodite, gestite e ben "tenute". Il mantenimento del Palazzo del Quirinale. Un parco auto da 35 vetture con 42 autisti. E non parliamo di 500 o panda. Tra queste 3 Lancia Thesis blindate, 2 Lancia Flaminia per le solenni cerimonie, 4 auto di rappresentanza per i capi di stato stranieri, 2 pulmini per il personale, 3 maserati, 14 vetture per i presidenti emeriti, il Segretario generale, il segretario generale onorario e i 10 consiglieri del presidente della repubblica. Mi sta girando la testa. Mi fermo qui con i conti. Caro Presidente, i meno abbienti devono fare sacrifici, va benissimo. Allora lei venda ai privati la tenuta di Castelporziano, rinunci a villa Rosebery, rivenda al Papa il Quirinale e si trasferisca in uno dei tanti palazzi capitolini di proprietà del Senato e della Camera, licenzi i corazzieri che non hanno senso nel 2011 nemmeno come coreografie, annulli le 14 vetture per la sua corte e sostituisca le macchine extra lusso con auto a bassa cilindrata. Se farà questo non occorrerà neanche che si ritocchi lo stipendio e la cifra per la rappresentanza. Altrimenti, la prego, stia zitto che mi aumenta il mal di testa.

Roberto Della Rocca

venerdì 16 dicembre 2011

Il pasticcio Minzolini e l'ennesima figuraccia della politica


ROMA - Augusto Minzolini se n'è andato. Il più contestato tra i direttori (secondo, forse, solo a Bruno Vespa e ad Emilio Fede) per le sue posizioni filo governative è stato rimosso dalla direzione del principale telegiornale italiano per volontà del Direttore Generale Lorenza Lei. Il motivo è l'accusa di peculato che è stata rivolta dalla Procura di Roma per via di alcune note spese poco chiare. Volendo stringere limitandoci ai fatti, Minzolini non si è attenuto alle regole fissate dal regolamento aziendale che prevede, in caso di pranzi di lavoro, di indicare i nomi dei commensali a cui si è offerto il pranzo. Minzolini non ha indicato i nomi delle sue fonti rivendicando, il sacrosanto diritto alla riservatezza delle "gole profonde". Niente da fare. Così la Lei ha potuto azionare la ghigliottina spalleggiata dal Presidente Paolo Garimberti che nella riunione del Cda ha approvato, con voto decisivo data l'astensione del centrista Rodolfo De Laurentiis, la defenestrazione del direttorissimo. Ora, si dirà, cosa c'importa di tutto questo? Ci importa, visto che gli italiani tutti, da nord a sud, sono costretti a pagare la più iniqua delle tasse, il canone televisivo, o tassa sul possesso della televisione. Giacché pago, voglio sapere quello che succede (sarebbe più giusto abolire questa assurda tassa vista la montagna di pubblicità che la Rai ci propina ma, in tempo di governi tecnici, le tasse si possono solo alzare e sempre tra una folla di cittadini festanti). La defenestrazione di Minzolini, al di là di come la si possa pensare politicamente è una porcata che costerà caro soltanto  ai cittadini. Minzolini non ha commesso alcun reato. Si è limitato a tutelare le fonti così come avevano già fatto i due suoi predecessori Clemente J. Mimum, oggi alla direzione del Tg5, e Gianni Riotta, finito a dirigere il Sole 24 Ore. Nessuno dei tre ha indicato i nomi dei commensali. Minzolini è stato accusato e ha perso il posto. Non ci sta a cuore Minzolini al punto da scrivere un articolo in sua difesa. Non ne ha nemmeno bisogno, sicuramente sa difendersi da solo. Quello che ci preme, è fare una previsione e poi una constatazione. Minzolini non accetterà supinamente il licenziamento dalla direzione del Tg1 e il trasferimento a New York. Farà ricorso al giudice del lavoro. Il giudice del lavoro lo reintegrerà visto che Minzolini ha rispettato il diritto alla riservatezza dei suoi ospiti e ha, oltretutto, versato alla Rai i soldi dei famosi pranzi con "sconosciuti". Scatterà il reintegro e, presumibilmente, la richiesta di archiviazione presso la Procura. Scatterà, è praticamente certo, anche la richiesta di risarcimento. Non la pagheranno né la Lei, né Garimberti, né i consiglieri di amministrazione, bensì tutta la cittadinanza. Ai posteri l'ardua sentenza sulla previsione. La constatazione riguarda invece la debolezza della politica. Se i consiglieri di amministrazione della Rai, tutti politici, avessero preso una decisione chiara in un senso o nell'altro non ci sarebbe niente da eccepire. Invece no. Anche su una situazione, tutto sommato, "tranquilla" si è generata la palude politica. Il centrodestra ha votato contro il licenziamento ma si è prontamente fiondato alla corte del nuovo direttore ad interim Alberto Maccari (vicedirettore del Tg1 dal 1994 al 2007, praticamente un tecnico per tutte le stagioni, come quelli che vanno, poveri noi, tanto di moda!). Il centrosinistra ha votato contro il Servo dell'Orco di Arcore mentre l'unico consigliere Udc si è, democristianamente, astenuto consentendo al Presidente Garimberti di esprimere un voto dal valore doppio (alla faccia della democrazia anche nella Rai) e consentendo, nei fatti ma senza assumersene la responsabilità, la cacciata di Minzolini. Insomma, un'altra pagina brutta per la politica. Un'altra pagina nera di questa Ita(g)lietta liberale da 4 soldi.

Paolo Luna

martedì 13 dicembre 2011

Riduzione dello stipendio ai parlamentari, il comunicato di Noi Meridionali


NAPOLI - Alla proposta di Monti di ridurre gli stipendi ai parlamentari con decreto legge, si è opposto Fini, sostenendo che ci sarebbe un vizio di forma, e tutti i parlamentari che con Crosetto (Pdl) affermano che così si ucciderebbero fisicamente e moralmente gli eletti. Intanto eletti da chi, semmai nominati.

Della Vedova (Fli) afferma che siamo in clima da rivoluzione francese,(magari!); Mazzarella (Pd): "siamo pagati da dirigenti di seconda categoria" (dovrebbero si e no meritare il compenso di un usciere ma non della Camera).
Come si vede i nostri parlamentari trovano l'accordo solo nel difendere interessi personali !!
In un momento in cui 50milioni di italiani sono stati informati che abbiamo un debito da 19 miliardi di euro che non abbiamo provocato e che al contrario è stato causato dai politici, in un momento in cui siamo tutti, anche i poveri, a fare sacrifici, gli unici a non volerne fare sono gli stessi che per incompetenza ed arroganza, hanno provocato questi ingenti disastri che dovremo pagare noi, i giovani con la disoccupazione,e le prossime generazioni.
Al loro confronto anche i Proci alla corte di Ulisse sembrano dei dilettanti!! Altro che stipendio di dirigenti di secondo livello, andrebbero processati per crimini contro la collettività e per disastri generazionali!!
Hanno utilizzato le risorse nazionali per vantaggi personali,per la difesa dei privilegi degli amici,hanno creato migliaia di enti inutili solo per sistemare i propri clienti,hanno dilapidato un patrimonio ingente che era l’IRI e ci ritroviamo senza nemmeno aver ridotto il debito pubblico, cartolarizzando al 30% del valore reale immobili che arricchiscono solo gli amici,hanno depredato il MERIDIONE, sperperando enormi risorse senza mai pensare a dare sviluppo ed occupazione, proteggono i grandi evasori con lo scudo al 5%, non hanno mai pensato di rendere moderna e competitiva la nostra economia con la globalizzazione che per i nostri politici è come accettare di competere in formula una topolino.
Se poi pensiamo al nostro Meridione la competitività è paragonabile ad un carretto .
La crisi che attraverso l'Italia ed in particolare il Sud non è una crisi economica ma esclusivamente POLITICA.
Sta a noi licenziare tutta questa classe di arrampicatori sociali.

Enzo Maiorana
Presidente di Noi Meridionali

Cantieri di Castellammare, la vertenza dimenticata

La protesta degli operai di Fincantieri all'annuncio della chiusura dei cantieri di Castellammare

VIBO VALENTIA - Un neo meridionalismo in grado di fare i conti con la storia non può che ripartire dai concreti processi economici. Cosicché, per comprendere lo stato d’impoverimento e di debolezza cui è pervenuta la struttura economica delle regioni meridionali nel primo decennio del terzo millennio, si rende necessaria una breve ma opportuna rivisitazione storica. E così, per prima cosa, bisogna ricordare che lo smantellamento del tessuto industriale nel territorio dell’Italia delle Due Sicilie ebbe inizio proprio 150 anni fa. Esso prese avvio, infatti, con la chiusura degli stabilimenti minerario metallurgici di Mongiana nella Calabria Ulteriore che, ironia della sorte, in nome del liberismo e delle privatizzazioni ispirate dai potentati economici europei della seconda metà dell’800, vennero venduti in seguito all’asta promossa dall’Intendenza di Finanza di Catanzaro con bando del 25 giugno 1874. Proseguì con la desertificazione delle esperienze tessili disseminate un po’ in tutte le regioni del vecchio Stato del Sud, a partire dall’inedito caso di San Leucio in provincia di Caserta che, per l’innovativa tecnologia industriale delle manifatture tessili e per la sua straordinaria ispirazione socio-economica introdotta in quel frangente storico del 1789, era stata conosciuta al mondo con il nome di “Real Colonia” collettivistica di tipo “comunista”. Si trattava infatti di quel settore tessile del regno napoletano che, sin dal 1813, aveva visto fiorire altresì la realtà avviata da Giovan Giacomo Egg con lo stabilimento di Piedimonte d’Alife. Struttura industriale quest’ultima che, seppure con l’annessione del 1861, l’indirizzo dei processi economici era stato orientato al rafforzamento del triangolo padano, aveva avuto la forza di resistere alle varie congiunture fino a pervenire nel 1925 a rinascere come S.p.A. Manifatture Cotoniere Meridionali. La sua robustezza economica settoriale e il suo naturale radicamento lungo il corso della storia, nonostante la distruzione dell’opificio operata dall’esercito tedesco il 19 ottobre 1943, era sopravvissuto ancora fino a pervenire al grave stato di crisi degli anni ’50 del secolo appena trascorso. Sicché, in un contesto di depauperamento, il tessuto industriale introdotto naturalmente dal processo economico innescatosi agli albori della rivoluzione industriale, in quel che è stato il fecondo ed intraprendente territorio siculo – napoletano, rischia ora di chiudere definitivamente con il cantiere navale di Castellammare di Stabia. Si tratta, nonostante la partigiana propaganda negativa verso l’intraprendenza produttiva dell’italica penisola meridionale, della più antica fabbrica di navi conosciuta nella modernità per le sue straordinarie tipologie lavorative. Castellammare di Stabia, infatti, sin dal ‘500 costituiva quello che in gergo moderno viene definito come un distretto manifatturiero, legato a numerosissime attività di natanti prodotti artigianalmente. In quel periodo fecondo, numerosi opifici avevano raggiunto una capacità organizzativa e professionale in grado di costruire navigli complessi, che andavano oltre i semplici pescherecci. Tale crescita, del tutto naturale per l’abbondanza della materia prima attinta nei boschi del demanio, costituiva una grande ricchezza per l’ingegno dei vari e numerosi maestri d’ascia, il cui talento si tramandava gelosamente di generazione in generazione. In un crescendo operoso, dunque, grande impulso aveva avuto di poi nel 1783, grazie all’allora primo ministro del governo di re Ferdinando IV di Borbone, Giovanni Edoardo Acton


Il cantiere infatti aveva varato tre anni dopo il “Partenope”, la prima imbarcazione di una lunga serie di vascelli, fregate e navi da guerra. In quel periodo, con i suoi 1.800 operai, era divenuto il maggiore stabilimento navale dell’intera penisola italiana. Grazie alla sua espansione, per le innovazioni progettuali d’avanguardia, era pervenuto il 18 gennaio 1860 al varo della moderna fregata ad elica, la “Borbone” di 3680 tonnellate, lunga 68 metri e larga 15, con la quale si chiudeva il vecchio sistema delle lenti e pesanti imbarcazioni di legno a poppa tonda. Ciò era stato possibile grazie agli stabilimenti metallurgici di Pietrarsa, che avevano raggiunto una capacità tecnologica in grado di produrre un motore di una potenza tale da erogare ben 457 cavalli di forza motrice. Per non parlare della dotazione di cui la fregata stessa era fornita, sempre con prodotti delle industrie siderurgiche e metallurgiche del regno napoletano. La fregata “Borbone”, infatti, possedeva 8 cannoni rigati da 160, 12 cannoni lisci da 72, 26 pezzi da 68 e 4 cannoni da 8 in bronzo. 


Cosicché, il cantiere navale di Castellammare di Stabia, nel periodo che va dal 1840 al 1860, aveva sfornato un quantità di imbarcazioni per ben 43.000 tonnellate. Successivamente, nel 1931, il cantiere varò la famosa “Amerigo Vespucci”, quindi nel 1939 entrò a far parte di Navalmeccanica fino ad arrivare, nel corso del 1943, alla semi-distruzione delle sue attrezzature. Ricostruiti gli stabilimenti del cantiere navale, il primo dopoguerra vide Castellammare realizzare per conto della Marina Militare il recupero dell'incrociatore “Giulio Germanico” affondato precedentemente dai tedeschi in ritirata. Nel 1956, ricostruito come cacciatorpediniere, l’incrociatore recuperato venne varato col nome di “San Marco”. Frattanto nel 1955 la società Bacini & Scali Napoletani venne assorbita dalla Società Esercizio Bacini Napoletani che era stata fondata nel 1954, dopo aver abbandonato la Navalmeccanica. 


Si pervenne in tal modo al 1966 allorché, integrando l’Ansaldo di Genova, il triestino Cantieri Riuniti dell’Adriatico e Navalmeccanica di Napoli, il 22 ottobre vide la luce la società Italcantieri appartenente al gruppo IRI. Fu Italcantieri che nel 1972, con il cacciatorpediniere Ardito, varò l’ultima unità militare a vapore per conto della Marina Militare. Nel 1984, infatti, la società venne interamente rilevata dalla nuova holding finanziaria Fincantieri appartenente alle Partecipazioni Statali che, in tal modo, ne assumeva in proprio la direzione operativa, precedentemente soltanto controllata. 

Giuseppe Bono, Ad di Fincantieri autore del piano da 2551 esuberi

Tra una crisi aziendale e un’altra, Fincantieri attraversò gli anni successivi fino ad arrivare ai nostri giorni a presentare un piano industriale attraverso il quale, dichiarando 2551 esuberi, vorrebbe smantellare due siti produttivi con in testa proprio quello di Castellammare di Stabia. La corale protesta dei lavoratori ha finora impedito che passasse il disegno che voleva la sua chiusura e il 9 novembre scorso, un’intesa sottoscritta al ministero dello Sviluppo Economico, ha garantito l’attività per realizzare la commessa per la costruzione di due pattugliatori già ordinati dalla Guardia Costiera. Tuttavia, sarebbe un grave errore se la vertenza restasse congelata nella routine delle crisi aziendali cui i potentati economici nazionali ed europei ci hanno abituati ad approcciarci. Se così fosse, con le solite litanie dei dati economici o delle diseconomie, le crisi di mercato e quella neo finanziaria, al prossimo attacco il cantiere affonderà come soccombettero in passato le aziende siderurgiche e tessili che, chiudendo sul nostro territorio hanno rilanciato i siti di altre regioni del nord, della stessa ricca Europa e di alcune aree asiatiche. Ecco perché, tanto per restare soltanto alla cantieristica navale e alle attività portuali, un nuovo concreto meridionalismo che non sia soltanto evocativo di un glorioso passato potrebbe ripartire proprio da Castellammare di Stabia, dal porto di Gioia Tauro e da Termini Imerese, per citarne solamente alcuni. Il misurarsi su questo terreno, forti della consapevolezza storica di ciò che avvenne poco prima, durante e dopo il 1860, non potrà che fare la differenza rispetto alla servile ed inconcludente classe dirigente che spadroneggia indisturbata a rappresentare il nostro popolo nei consessi istituzionali che contano oggigiorno a livello locale, nazionale ed europeo. Quel che serve, in sostanza, è la consapevolezza di dover ricostruire subito un nuovo blocco sociale che sappia dare voce e dignità all’intera area meridionale. Un blocco che, disincantato dall’astratta retorica e libero dal condizionamento culturale ultracentenario, sappia saldare gli interessi materiali delle neo generazioni del sud, cui è negata tuttora la prospettiva di poter utilizzare diversamente le proprie risorse umane e naturali che li circondano, con l’orgoglio dell’appartenenza a una realtà geografica straordinariamente proiettata come avamposto commerciale nel bacino del Mediterraneo. Area che però, per uscire da questo asfissiante giogo in cui è stata relegata, ha bisogno di credere che ricostruita a sistema economico produttivo, ha le carte in regola per ritornare competitiva nel contesto globale più di altre aree che, paradossalmente, per le rigidità socio - economico - strutturali che hanno accumulate nel tempo, ora si trovano avviluppate come non mai.

Michele Furci

lunedì 12 dicembre 2011

Lutto nel giornalismo, morto Enzo Albano, in prima linea, come giornalista e magistrato, per la difesa del Sud e la lotta alla criminalità


NAPOLI – Si è spento all’alba di stamane, a Napoli, il consigliere dell’Ordine dei Giornalisti della Campania, Enzo Albano. Nato il 19 luglio 1943, era giornalista pubblicista dal 21 marzo 2005.

Magistrato, presidente del Tribunale di Torre Annunziata, Enzo Albano si è sempre distinto per il forte impegno contro la criminalità organizzata. La sua scomparsa lascia un vuoto incolmabile. Uomo di grandissima cultura, si è sempre distinto per lotte e battaglie per migliorare le condizioni sociali del Mezzogiorno.
Alla moglie Pina ed ai familiari, i giornalisti pubblicisti della Campania di Alternativa Sindacale – Stampa Libera ed Indipendente formulano le più sincere condoglianze. “La scomparsa di Enzo Albano – ha dichiarato Mimmo Falco, vice presidente dell’Ordine della Campania e componente della Giunta Esecutiva Fnsi - è una perdita enorme per il Paese ed in modo particolare per il Sud”.
I funerali si svolgeranno domani, lunedì 12 dicembre, alle ore 11.30, nella Cappella Cangiani di Napoli.

sabato 10 dicembre 2011

Da Bari parte la sfida della Confederazione Duosiciliana





BARI - Aria nuova al di quà del Tronto. Di un soggetto politico meridionalista si sente tanto il bisogno. Nelle ultime settimane, si sono lanciati nell'impresa 4 soggetti culturali e politici appartenenti alla galassia meridionale. Sabato mattina, presso l'Euromotel di Bari si sono incontrati i responsabili di Insorgenza Civile, di Italia Prima, dei Comitati Due Sicilie e del Movimento Meridionale, che hanno presentato ufficialmente alla stampa e ai simpatizzanti la Confederazione Duosiciliana. Questo il nome del soggetto tanto atteso ed invocato che i vertici dei movimenti fondatori hanno attribuito alla "creatura" politica meridionalista, o, come hanno precisato fin dal simbolo della Confederazione, neomeridionalista. Il neo non è un vezzo ma vuole sottolineare la rottura con il meridionalismo troppo culturale e troppo poco impegnato nel campo della lotta politica che, come annunciato da tutti i componenti, diventa la priorità e l'impegno principale della Confederazione. A gestire i lavori sono stati, abilmente, Lucilla Parlato, parte integrante della dirigenza di Insorgenza Civile, e il giornalista Lino Patruno

Lino Patruno


Forse il più adatto tra i giornalisti di rilievo nazionale impegnati nella battaglia per un nuovo Sud (oltre a lui, possiamo agilmente ricordare Pino Aprile, Lorenzo Del Boca e, per certi versi, anche Marcello Veneziani) che nel suo libro "Fuoco del Sud" aveva auspicato la svolta politica, posizione ribadita poi ai grandi appuntamenti meridionalisti come la commemorazione di Gaeta. "Questo percorso è stato lungo - ha ricordato Lucilla Parlato - ed è cominciato quando i movimenti culturali e politici meridionalisti si sono ritrovati uniti nella protesta contro la mostruosità del Museo Lombroso di Torino, e la strada è continuata con i Comitati Due Sicilie alle elezioni amministrative di quest'anno che hanno visto i Cds affiancare e sostenere Insorgenza a Napoli e nelle altre realtà che hanno visto scendere in campo i suoi esponenti. Non saremo la solita accozzaglia ma saremo uomini e donne d'azione". Importante anche l'appello alla responsabilità verso l'altra metà del cielo, verso i leader e i responsabili delle associazioni meridionaliste non ancora schierate. "La speranza e l'auspicio è ovviamente quello di un coinvolgimento di nuovi soggetti al progetto della Confederazione. Sono certa - ha concluso la Parlato - che sono numerose le persone responsabili che vorranno impegnarsi per il nostro Sud". Si è definito emozionato Patruno, non nuovo alle platee, perchè "senza voler fare retorica e in piena sincerità, ho la certezza che si sta costruendo qualcosa di importante. Un qualcosa, la confederazione, che può essere la risposta alla domanda che sempre, alla fine di ogni convegno di carattere storico o politico la gente ci pone: che fare? Questo soggetto è positivo perchè si misurerà, nonostante le difficoltà prevedibili, sul terreno della politica. Sarà fondamentale marcare il territorio e far sapere che il Sud c'è anche a costo di prendere solo mezzo voto" ha dichiarato il giornalista. Concetto, quest'ultimo, ribadito da Sergio Montella, della dirigenza di Insorgenza Civile. "Da oggi si comincia a fare sul serio. Per la prima volta - ha ribadito l'insorgente - ci accingiamo a costruire e non a distruggere come troppi, per egoismi di bottega, hanno fatto in passato".  Uno dei padroni di casa, vista la location barese, è stato Antonio Dell'Omo del movimento Italia Prima. 


Antonio Dell'Omo


"Quando è finito il conflitto Est - Ovest, è diventato chiara a tutti l'esistenza di un conflitto nord - sud. Noi siamo allo sbando e dobbiamo agire nell'immediato puntando lontano. Questo futuro va costruito giorno per giorno - ha sostenuto Dell'Omo -  e va realizzato tenendo conto la stella polare del nostro essere meridionali. Il nostro punto di riferimento resta l'anima di Napoli che, nonostante 150 anni di soprusi, non si è piegata ad un modus vivendi che non le appartiene. Un sistema di vita che non può essere imposto e che è alla frutta". Importanti le parole di Fiore Marro, Presidente Nazionale dei Comitati Due Sicilie che ha ricordato come "I Cds, pur non essendo nati come formazione politica hanno voluto sostenere Insorgenza Civile nella battaglia alle elezioni amministrative nella convinzione che è giunto il momento di fare il passo avanti tanto atteso. 


Fiore Marro

Anche a costo di sacrifici in termini di scissioni e separazioni i Cds hanno voluto aderire alla Confederazione Duosiciliana perchè crediamo nel progetto. Nei confronti di chi sceglie di non fare politica e di proseguire la battaglia culturale dobbiamo essere ben disposti. Insieme a Nando Dicè e Michele Ladisa siamo stati lieti - ha concluso Fiore Marro - di affiancare gli amici del Movimento Neoborbonico nel Parlamento delle Due Sicilie proprio per dimostrare questo". Molto sentito, appassionato e applaudito l'intervento di Nando Dicé, leader di Insorgenza Civile e neo portavoce della Confederazione Duosiciliana che ha scaldato l'uditorio ricordando tutti i motivi per cui si è deciso di affrontare il viaggio della Confederazione. 


Nando Dicè


Lotta al signoraggio bancario e al dominio della finanza, costruzione di una classe politica meridionale responsabile, rivendicazione dei diritti del Sud rispetto ad un sistema affamatore e opportunista, insomma, per dirla alla Dicè: "rivoluzione!". A concludere gli interventi della mattinata è stato l'altro padrone di casa, il giornalista Michele Ladisa neo coordinatore della Confederazione che ha concentrato la sua attenzione sulla crisi della politica e sulla necessità di procedere, in modo rapido alla costituzione della macroregione meridionale. 


Michele Ladisa


Certamente la strada della Confederazione non è in discesa. Ci sono le divergenze personali che, seppure a detta di tutti (in modo onesto) sono state accantonate dinnanzi al bene comune della Patria, emergeranno nei momenti cruciali. Importante, a quel punto, la capacità di mediazione del coordinatore Ladisa su cui grava questa enorme responsabilità. Senza considerare le difficoltà pratiche della battaglia come quella, rilanciata in sede congressuale da Sergio Montella di Insorgenza Civile, di raccogliere le firme, 5000 per ogni collegio in caso di elezioni parlamentari. I vertici della Confederazione si sono detti intenzionati, non solo a provarci, ma anche a riuscire. Da meridionali possiamo solo sperare che ci riescano. A loro gli auguri di buon lavoro.

r.d.r.