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mercoledì 28 dicembre 2011

L'EDITORIALE/ Giorgio Bocca, il coro di lode e gli eredi rimasti in circolazione



CASERTA - Giornalisti di destra e giornalisti di sinistra sono accorsi in questi giorni, fisicamente e spiritualmente, al capezzale e poi al sepolcro di Giorgio Bocca che ha lasciato questa terra il giorno di Natale. Non posso iscrivermi al partito di chi rimpiange un figuro come Bocca, formazione che attraversa gli schieramenti da Feltri (che rimpiange un “nemico”) a Scalfari e De Benedetti (che piangono un amico e un maestro di giornalismo e di vita). Sto sulle mie posizioni, non dico di felicità ma certamente di accurata indifferenza. Giorgio Bocca non mi piaceva. Non mi è mai piaciuto. Non è certo un requisito quello di piacermi, è questione di gusti personali. Non mi piaceva come giornalista e ancor meno l’ho apprezzato come uomo. Già il fatto di essere piemontese non giocava a suo vantaggio ma abbinare al peccato di origine il peccato mortale di idea è troppo. Vogliamo rovistare nel torbido? Volo di ricognizione prima di approfondire. Bocca è stato tutto e il contrario di tutto. Fascista e antifascista, partigiano di stampo liberale e spietato giudice dei tribunali del popolo, giornalista lombrosiano e anti meridionale salvo poi diventare autore di libri strappa lacrime sul meridione per vendere qualche centinaio di copie a pecoroni asserviti, fu un esaltatore delle virtù del socialismo da bere di Craxi salvo poi finire davanti l’Hotel Raphael con le monetine in mano, sostenitore del Berlusconi imprenditore televisivo e poi fiero oppositore del mostro di Arcore, a tratti leghista e poi nemico di Bossi e della sua orda di barbari. Accettò il titolo di anti-italiano ma più italiano di lui è soltanto l’altro Giorgio, il monarca Napolitano. Ce n’è per tutti. Ripartiamo dall’inizio. Cuneo. Diciotto agosto 1920, giornata calda nel profondo nord. La signora Bocca da alla luce un maschio. Lo chiamano Giorgio. Due anni dopo Mussolini viene investito del potere quasi assoluto da un monarca piegato ai desiderata di industriali, militari e aristocratici senza spina dorsale e col pensiero fisso al profitto che il fascismo può garantire loro tenendo ben lontani dal potere comunisti e derivati di sinistra. In pochi anni il giovane Giorgio brillò nelle sedi del Fascio littorio conquistandosi, una volta raggiunta la maggiore età un ruolo di rilievo nel Guf finendo davanti al Duce in persona nel 1940 in occasione di una premiazione per le gare di giochi invernali durante i quali si distinse ottenendo la M d’oro. Aveva la scrittura nel sangue e la firma facile. Il suo nome è infatti finito sotto al Manifesto della Razza pubblicato nel 1938 per dimostrare ai tedeschi che l’Italia Fascista non si mischiava a certa gente. Non contento di aver sottoscritto il manifesto Bocca si espresse in chiave razzista ancora contro gli ebrei nel 1942 su “La Provincia Grande” quando diede la colpa alla congiura ebraica delle disgrazie di guerra che si affacciavano all’orizzonte. Miracolo della conversione. Dopo l’8 settembre, finito Mussolini a Campo Imperatore e chiusasi in tragicommedia l’esperienza fascista, l’alpino Bocca molla tutto, M d’oro, tessera di partito, articoli compromettenti e amicizie scomode e va sui monti a ricostruirsi una verginità politica iscrivendosi alle liste dei partigiani di Giustizia e Libertà. Nel giro di due anni è un leader della resistenza contro tedeschi e repubblichini. A guerra finita esercita ancora la sua funzione di presidente del tribunale del Popolo e firma (sempre il solito vizio) la condanna a morte per il tenente Adriano Adami e per altri 4 appartenenti alle forze della Repubblica sociale italiana. Poco importa se a guerra finita i prigionieri dei partigiani avrebbero dovuto essere consegnati alle autorità ricostituite. Anche grazie a quelle morti il nuovo Bocca poté costruire la sua nuova carriera di giornalista. Giornale dopo giornale, Sentinella d’Italia, la Gazzetta del Popolo, l’Europeo, il Giorno, divenne sempre più noto e apprezzato. Più esperienza maturava più si accresceva l’elenco di quelli che volevano considerarsi suoi discepoli ma aumentavano, al contempo, errori e cadute di stile. Sempre di facile firma appose ancora una volta la sua sigla in calce al manifesto contro il commissario Calabresi insieme ad altri ben pensanti e mal razzolanti dell’epoca. Molti chiesero scusa e ritrattarono, Bocca no. Lui era tutto d’un pezzo e poi a lasciarci le penne era stato solo un commissario di polizia. Diversamente si comportò quando, tra le altre uscite infelici, sostenne che le Brigate Rosse erano una invenzione dei servizi segreti. Scontentò molti alti papaveri e scandalizzò molti cittadini e pochi anni dopo dovette pubblicamente scusarsi per quella maldestra osservazione. Nel frattempo agli articoli si sommarono un lungo elenco di libri. Memorie della sua gioventù e della sua esperienza tra i partigiani, con largo uso di bianchetto, racconti a carattere storico, resoconti e inchieste di cronaca, fino agli ultimi anni, quando si impegnò nella crociata contro l’orco di Arcore. Carattere non facile, ai limiti del burbero e dell’insensibile con una buona dose di falsità cortese tipicamente piemontese, Bocca vide crescere grazie soprattutto alle sue esternazioni l’elenco dei suoi nemici. I giornalisti di destra, anche quelli che oggi sono costretti a violentarsi pur di non dire quello che pensano di un collega morto, lo odiavano per via dei suoi cambi di fronte. I leghisti per lo stesso motivo. Berlusconi e i suoi peones egualmente. Ultimamente si era appiattito sulla linea di Repubblica, quotidiano che aveva fondato assieme a Eugenio Scalfari, cosa che lo ha portato ad essere critico nei confronti dello schieramento di centro sinistra. Insomma, un lungo elenco di avversari, nemici, oppositori che si è arricchito di parecchi meridionali che hanno reagito in modo scomposto e, giustamente, aggressivo, quando Bocca, ai limiti della demenza senile, ha cominciato ad attaccare la varia umanità meridionale da Napoli a Palermo parlando di camorristi, cimiciai, gente abietta, criminali incalliti e paradisi perduti affidati a diavoli. Un giornalista serio avrebbe analizzato le cause e i motivi. Se Bocca fosse stato una persona per bene e non uno sporco lombrosiano avrebbe dovuto informarsi di Garibaldi, “Tore e’Criscienzo”, della “Sangiovannara” e di tutti i camorristi che hanno sostenuto l’eroe dei due modi, Liborio Romano e Vittorio Emanuele II. Mafia e camorra al servizio dell’unità d’Italia. Criminali nati e arricchitisi grazie al tricolore, ma questo all’ultraitaliano Bocca poco importa. Nonostante tutto lo si incensa e più passerà il tempo più, già li vedo passare, crescerà l’elenco dei sostenitori post mortem. Fioccheranno i licei Bocca e i premi giornalistici e letterari a suo nome. Una vera e propria ansia, quella tutta ita(g)liana di voler trovare eredi e pari. Indro Montanelli, il Principe vero del giornalismo, è stato impareggiabile ma già tutti gli accostavano eredi veri e presunti, e personaggi in concorrenza come lo stesso Bocca e Scalfari. Grazie agli ultimi anni di militanza anti berlusconiana Montanelli resta impareggiabile e senza eredi. Morendo ha accresciuto la sua leggenda di grande e vero maestro di giornalismo. Il danno peggiore, invece, Bocca l’ha fatto proprio passando a miglior vita. Ha lasciato in circolazione i suoi eredi. Tre quelli che più di tutti hanno scritto e hanno scalpitato per ottenere la qualifica: Aldo Cazzullo, Fabio Fazio e Roberto Saviano. Come direbbero i latini: “Rustica progenies semper villana fuit!”. Cosa aspettarsi da tal maestro?

Roberto Della Rocca

1 commento:

  1. Complimenti, grande editoriale, praticamente perfetto. La morte di Giorgio Bocca non può suscitare in noi altro che pietà umana. Niente di più.

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